Ancora sull’eolico offshore

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Riporto un interessante contributo da  Greenreport.it

a parte il madornale errore di porre Termoli in Basilicata, è interessante leggere cosa si dice in Europa sull’Offshore.

“Se l’italianità sporca la green economy: bene l’eolico offshore se fatto in modo corretto”

Dalla recente conferenza europea sull’eolico che si è svolta a Stoccolma, si apprende che l’eolico off-shore ha le potenzialità tecniche per fornire, entro il 2030, 7 volte più elettricità di quella che si consuma adesso in Europa. Gli attuali parchi eolici realizzati in mare hanno una potenza di 1,5Gw ed esistono già progetti per complessivi 100 Gigawatt, in grado di soddisfare il 10% del fabbisogno elettrico del vecchio continente; ma potrebbero arrivare a150 GW al 2030, una potenza sufficiente a fornire dal 13 al 17% del fabbisogno europeo.

Se poi si scegliesse di intraprendere con maggiore convinzione questa strada, sulla cui tecnologia l’Europa è leader mondiale, il documento presentato alla conferenza europea sull’eolico stima che basterebbero 8 parchi eolici off-shore (installati su una superficie complessiva di 100 chilometri quadrati) distribuiti nelle aree più ventose dei mari che bagnano l’Europa per fornire l’elettricità necessaria al fabbisogno di tutto il continente, pari a 3 mila Tw (terawattora). Facile a dirsi ma molto meno a realizzarsi.

L’eolico off- shore presenta molti vantaggi rispetto a quello realizzato a terra, così come svantaggi: tra i primi quello di produrre elettricità in maniera più costante, tra i secondi quello di richiedere ingenti investimenti e quindi la necessità di reperire notevoli capitali, oltre alle ovvie maggiori difficoltà d’installazione.
Attualmente stanno sviluppando progetti in questa direzione la Germania, l’Inghilterra, il Belgio, la Francia, e già li hanno sviluppati la Danimarca e la Svezia.
Anche in Italia si comincia a progettare qualcosa, ma non senza problemi.

Al pari dell’eolico a terra, l’off-shore infatti riceve una forte opposizione delle popolazioni locali, sostenute dalle stesse istituzioni locali, che hanno però poca voce in capitolo, trattandosi di territori demaniali, anche se le Regioni che si affacciano sui tratti di mare interessati ai progetti stanno cominciando a chiedere un maggior coinvolgimento nelle decisioni.

E’ quanto è successo a Termoli in Basilicata, dove il progetto di un parco eolico off-shore, contestatissimo dallo stesso Antonio Di Pietro quando era il ministro competente a dare le autorizzazioni, ha visto recentemente l’approvazione della Valutazione d’impatto ambientale. Ed è quanto sta accadendo adesso in Sardegna, dove una piccola società di Bosa ha chiesto l’autorizzazione per realizzare un parco off-shore da 80 pale in uno specchio di mare, di fronte alla penisola del Sinis, distante tra i due e gli otto chilometri dalla costa.

Una vicenda che parte con il piede sbagliato e rischia di inficiare ulteriormente lo sviluppo di questa tipologia di fonti rinnovabili nel nostro paese, che potrebbe invece divenire – secondo autorevoli pareri – dello stesso ordine di grandezza dell’eolico prodotto in terraferma e contribuire a fornire fino al 5% della produzione di energia elettrica al 2030.

Un caso, come purtroppo se ne contano nel nostro paese, di come una pratica auspicabile come il ricorso all’eolico, e in particolare a quello realizzato in mezzo al mare, possa trasformarsi invece in un catastrofico boomerang.

A partire dalla scarsa trasparenza della società che lo propone, la Is Arenas srl renewables energies, e che a fronte degli ingenti investimenti (e quindi della necessità di reperire vasti capitali) che la tecnologia off-shore richiede, si presenta come una piccola società con sede a Bosa costituita per poter richiedere l’autorizzazione nel maggio del 2009, con un capitale sociale di appena 10.000 euro.
In realtà la società è al 100% di una società (Partnercom s.a.) con sede in Lussemburgo e con amministratore unico residente al Principato di Monaco. Il dubbio è quindi che sia una delle tante società costruite a scatole cinesi, nate con lo scopo di presentare domanda di autorizzazione all’impianto per poi venderla, una volta acquisita, a migliore offerente.

Ci sono poi tutti i problemi ambientali che questo impianto potrebbe produrre nell’area indicata per la sua realizzazione, a fronte dei quali non è chiaro che esista uno studio d’impatto ambientale: la presenza di una vasta aerea di posidonia su cui la giunta regionale ha recentemente proposto l’ampliamento di una zona sic per tutelarla e che invece andrebbe distrutta; le dimensioni fuori scala del progetto relativamente all’area dove viene proposto e così via.

Insomma a quanto emerge dai documenti presentati dalle parti che si oppongono, e che superano di gran lunga quelli forniti da chi l’impianto lo propone, siamo di fronte ad un esempio da manuale di come non ci si dovrebbe muovere e di come non si dovrebbe operare nel presentare i progetti.

Uno dei motivi per cui l’Italia rischia l’empasse nell’avviare la strada verso una concreta e corretta green economy, mentre continua a mantenere in eredità sul territorio impianti impattanti e inquinanti, che oltre a rappresentare un danno al paesaggio (non lo sono certo meno delle pale eoliche la raffineria di Sarroch o la centrale a carbone di Fiume freddo per rimanere in Sardegna) non fanno fare passi avanti verso uno sviluppo più sostenibile per l’ambiente e per l’economia.
di Lucia Venturi – Greenreport

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